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Nella danza lenta e trascinata dei ricordi, la memoria si frammenta, niente appare lineare e univoco, ogni immagine si ribella alla legge delle causalità e le impressioni, insieme alle voci, agli odori, ai giorni felici e quelli tristi appaiono come piccoli atomi scissi, incapaci di badare a se stessi fin quando la creatività del gesto e del ricordo non intessono per loro una nuova storia. In questa doppia vita della memoria c'è più forza che nella vita stessa, così come è andata, così come è accaduta. Riscriviamo e coloriamo i fatti attraverso strumenti intelligenti e più autentici della realtà, osserviamo il passato con l'ausilio dell'emotività, del sentimento, perché non conta ciò che è stato, ma gli effetti che questo ha prodotto. Quindi ogni ricordo è il totale che ricaviamo dal calcolo delle ferite e delle gioie, non esiste altro modo che questo per raccontare una storia, si deve necessariamente partire dalla distanza che sfuma le immagini e ci lascia da soli con l'eco delle cose scomparse. 
Sophie-Anne Herin ci racconta proprio questo tipo di storia, lo si nota subito osservando questi scatti, lo stile che utilizza è una riscrittura della narrazione che ci presenta, si serve di una manomissione stilistica che non può che diventare poetica e dare forma così a un universo di sensazioni e significati al racconto di una vita, quella di Viktoria.
Viktoria nasce in Ucraina, perde il marito a soli vent'anni, nel suo paese non è concessa a una vedova una seconda possibilità, così decide di partire per l'Italia con l'aiuto di due connazionali. Arrivata a Napoli, Viktoria si ritrova in una situazione di sfruttamento, l'unica scelta è partire, di nuovo, questa volta si dirige a nord, arriva così a Modena dove incontra un uomo col quale vive una storia d'amore e mette al mondo la sua seconda figlia. Purtroppo l'idillio non dura molto, il nuovo compagno la massacra di botte costringendola a rifugiarsi in un centro anti violenza di Modena con i due figli sui quali il padre perde la podestà. È qui che Sophie la incontra e da questo luogo che è a tutti gli effetti un'eterotopia umana e spaziale affrontano insieme il viaggio verso il paese natio di Viktoria, luogo al quale farà ritorno ogni estate per permettere ai figli di conoscere le proprie origini. 
Le fotografie che Sophie è riuscita a scattare durante questo viaggio esprimono una drammaticità che si riconcilia con se stessa, il dolore dal passo pesante e trascinato allontana il ricordo della violenza e si concede quello spazio semplice e silenzioso che ha il volto della dimensione familiare. Eppure la tragedia personale e collettiva non è così distante, sembra resista dietro ogni oggetto, momento o volto immortalato, come una presenza che ha abbandonato il suo aspetto chiassoso e si presenta nella forma elegante dell'immobilità e dei gesti, un gene, una condanna che cammina dentro le vene e si mischia al sangue, anche se il volto appare disteso. L'Ucraina è un paese sconvolto dalla guerra, Viktoria è una donna sconvolta dai suoi personali drammi, cosa ha che fare tutto questo dolore con la famiglia? C'è una linea sottile che unisce micro e macro mondi, un sottile filo di Arianna che funge da ovidotto al cui interno passa il valore della memoria, irrinunciabile per chi voglia dare un senso agli avvenimenti. Ogni fotografia ha un colore comune, una specie di filtro rosso che crea una continuità sanguigna, ma non solo. Questa patina ci consegna un'interpretazione, un sotto testo implicito, non osserviamo la cronaca della vita di una donna, della sua famiglia o del suo paese, ma il denominatore comune che li stringe in un legame parentale, perché è quello che sentiamo che ci rende simili, quel vasto universo che vive sul fondo di ogni storia. Alla fine del labirinto il Minotauro forse non esiste, o forse siamo noi, così come ci raccontiamo, così come ci ricordiamo, nella nostra debolezza e nella nostra forza. Non c'è un mostro capace di divorarci se non abbiamo lasciato che il labirinto ci divorasse per primo.


Denise Cuomo Pangallo

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