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Scraps
Nella raccolta fotografica “Scraps” la fotografa, Sophie Anne Herin mette a nudo, come in nessun altro lavoro, la dimensione più intima e radicale della sua esistenza. Scraps contempla, non a caso, la presenza di scatti autentici e immagini di archivio. La narrazione si muove su due piani interconnessi tra loro che, alla fine, lasciano sfogare una voce fuori campo potente. Il focus è la famiglia, la terra e le radici, i luoghi dell’infanzia e le persone che costellano la sua giovane vita. Le vecchie fotografie di famiglia sono ormai ricordi, eco di una vita passata nel tempo e nello spazio, ma ancora presente negli eredi. E l’eredità qual è? Tolstoj nell’incipit di Anna Karenina descrive così le famiglie: “Le famiglie felici si somigliano tutte, le famiglie infelici lo sono ognuna a modo suo”. Da queste immagini non c’è concesso sapere se la storia di questa famiglia sia felice o meno, forse perché la verità è che nessuna famiglia è mai stata felice, forse non è la felicità il marchio della famiglia, ma l’intensità dell’incomunicabilità. Sophie manomette fotografie che appartengono agli archivi di famiglia, riscrive su un altro piano, attraverso l’intervento sulla lontana realtà, quell’eredità di caratteri e silenzi, di suoni e impercettibili taciuti. È la sua voce fuori dal campo, la voce di chi rimane per raccogliere i frutti dei semi che si confondono nella terra, tra i rovi ventosi, tra le carcasse di animali morti e danno vita a un universo che solo un lessico coraggioso può cogliere e svelare.
And then i went home
In questa raccolta non c’è traccia umana, la coscienza elementare è quella delle piante, dei fiori, degli animali, di quello che resta della loro attività. Tutto si limita alla processualità ferina e sapiente di un’evoluzione, come un’entelechia perfetta, ma che potrebbe essere scambiata per futile utilitarismo della specie. In realtà Sophie, attraverso il mezzo fotografico coglie, ancora una volta, non solo la realtà spietata dell’oggetto indagato, ma la sua seconda natura: la sensualità della carne, l’armoniosità della bellezza, compresa la sua fragilità, che può essere debolezza del processo, una falla nel sistema natura. La seconda natura del mondo naturale ci abita come una minaccia e una promessa di felicità, di estasi, ed è miracoloso il modo in cui il disegno perfetto possa, una volta riconosciuto nella specie umana, rappresentare fonte di gioia e bellezza. Presenze animali e vegetali proiettano l’ombra di simboli, di suggerimenti non richiesti, di una salvezza che resta avviluppata alla loro esistenza e si scarnifica nel gesto quotidiano di osservarne il glorioso e intonso mistero. Come diceva Sandro Penna: “quell’eterno amare i sensi e non pentirsi mai”
If
Il periodo ipotetico è formato da una proposizione condizionale (pròtasis: premessa, in greco) e una proposizione principale (dal greco apòdosis, cioè restituzione). If è un album sulla restituzione mancata.
Cos’è che non è stato restituito? Quali premesse sono state disattese? Noi non possiamo saperlo, questa non è cronaca, le fotografie di Sophie in questo caso sono più che mai astratte, meno nella loro singolarità, più nella loro sintassi. Comunicano tra di loro attraverso una sensazione indescrivibile di assenza, mancanza, cedimenti, angosce e fragilità. È il sostrato della vita di chi ha avuto il resto di niente indietro, per questo motivo dobbiamo accontentarci di simboli e fallite messe a fuoco, di paesaggi solitari e vacanti, strade che promettono con le loro traiettorie la presenza umana che però è assente. La poetica dell’immagine potrebbe soverchiare il senso di tutto questo, ma il significato è chiaro: la solitudine degli sfrattati. Non importa che sia una casa, una felicità promessa, un torto rimasto impunito, la maschera cade e quello che resta sono mani, strade, arbusti nel gesto d’attesa, un respiro ingestibile e rimasto sospeso, chissà da quanto, chissà perché, chissà chi restituirà o pagherà il debito. Questo potrebbe essere l’epilogo doloroso e verosimile di contatti e solitudini che si incollano e scollano alla e sulla pelle, ma Sophie non dimentica la dignità degli elementi e degli uomini, l’inevitabilità dell’assenza e quindi il silenzio che ha il colore del neon in un cortile, o di uno specchio da mobilio anni settata, sono tutti vettori che colgono sul fatto la nobile e inviolabile zona grigia della vita, una dignitosa solitudine che ci rende fragili, inguaribili, ma uguali.
Naked
Si può raccontare la violenza scritta su milioni di volti e corpi femminili, la cronaca gronda di queste orribili storie e le testimonianze sono ovunque. Cosa succede quando, però, la violenza che vuoi raccontare è quella subita dagli uomini? Il materiale scarseggia, sono pochissime le testimonianze e i corpi che si prestano a questo tipo di narrazione. Eppure le due forme di violenza sono le due faccia dello stesso orrore. Un errore del sistema, un vincolo di genere che ha portato a una lotta di genere dopo la quale può esserci solo la brutalità dell’ecchimosi e della morte - da una parte - e il dolore privato e segreto dall’altro. È una guerra senza sconti dove i ruoli si confondono e tutto diventa causa e effetto di tutto, difficile trovare il bandolo. Naked è un album che avrebbe potuto raccontare, al pari di Malemort, la violenza nella sua efferata cecità, quel sopruso senza perdono. Eppure non è andata così, perché Sophie ha fotografato un tipo di vulnerabilità, una specie di tortura che non si può raccontare, che non si deve raccontare, ha scattato immagini che ritraggono uomini spogliati non solo dei loro indumenti, ma anche della loro virilità tossica, quel destino che tocca al genere maschile e del quale la donna conosce spesso l’epilogo. Ma non è sempre così, a volte il seme avvelena se stesso prima che qualsiasi forma di vita o di morte possa rivoltarsi contro il suo vicino. Le fotografie qui presentate sono cariche di dettagli, marker maschili diremmo: barbe, peluria folta, il sesso. Ci sono molte mani, tutte strette intorno al corpo da proteggere, alla vulnerabilità che non si può dire perché maschia. Gli arti cercano un appiglio nell’aria della loro fragilità fetale. Sembra un raccoglimento, uno scudo e una protezione, l’ultima preghiera dell’uomo ‘scoperto’. Le case sono spoglie, così come i letti, nelle stanze le luci che filtrano, da finestre semplici, sono punti luce che non illuminano lo spazio. Il corpo resta un imprevisto poco illuminato, ma ben visibile, delineato ed esule in uno spazio che lo vorrebbe forte e brutale e invece lo coglie e lo inchioda nella sua imperfetta umanità in bilico.
Malemort
In questo album è possibile scorrere, con atto meccanico, una sequenza di fotografie d’archivio che ritraggono donne uccise tutte nel 2019. Un femminicidio in sequenza, immagini di fantasmi, di doppi irreali. Le dinamiche dell’uccisione cambiano, per questo Sophie usa dei filtri che vengono sovrapposti alle figure, per esprimere proprio questo diverso modus operandi dell’assassino. L’assassino è uno: il maschio della femmina, ma non è solo una persona, piuttosto un concentrato di sistemi tossici. Il patriarcato, il maschilismo, la gelosia morbosa e ossessiva, il possesso malato, il potere e la proprietà. Non c’è amore in questo album, come non c’era amore nella vita di queste donne, c’era solo un copione tragico che si ripete ogni giorno, dove la regia decide e taglia e sposta e si impossessa e alla fine cancella. Ogni volto è la lapide della nostra società, ogni donna è l’agnello sacrificale sull’altare della sola e unica soggettiva razionale: quella maschile. Ognuna di essa è comparsa, ogni corpo demanio pubblico, ogni vita sottoposta alla dura legge del potere che, ormai lo sappiamo, come diceva De André “non esiste un potere buono”. Gli atti giudiziari sono ancora più terrificanti da leggere e ascoltare, la retorica che si forma tutta intorno all’assassino è una narrazione accomodante e giustificativa, depotenzia l’uccisore in ultima istanza per svigorire il femminicidio. Tra queste immagini vi suggerisco di soffermarvi su una in particolare; la numero otto. Non c’è poesia in un volto di cui non è rimasta traccia, sembra una stella esplosa della quale non ce ne siamo ancora accorti qui da noi, sulla terra degli uomini, dove ancora sembra sia viva, luminosa, parte del cielo.
Nothing
Nothing ha come soggetti figure compromesse da malattie come la bulimia e l’anoressia. Il lavoro di Sophie in questo caso è un lavoro autonomo, in prima persona, senza strutture di recupero o istituzioni di sorta che possano fare da filtro. In psicoterapia si usa, tra i metodi terapeutici, la libera associazione. Da una parola puramente casuale, il paziente è invitato ad associare un’immagine. E’ quello che ha fatto Sophie nell’approccio con le persone ritratte, ecco perché all’interno dell’album troviamo corpi prosciugati dall’anoressia e, immediatamente a fianco, immagini che sembrerebbero messe lì a caso. E’ un lavoro concettuale, in parte, ma è soprattutto rappresentativo, perché disturbi come l’anoressia o la bulimia portano i soggetti malati a rappresentare se stessi attraverso immagini irreali del proprio corpo, del proprio spazio e di tutte le istanze della vita viva. C’è distorsione e perdita di percezione, ma nella maggior parte dei casi la letteratura scientifica ci spiega che patologie del genere nascono dal bisogno disperato di avere il controllo di qualcosa, di qualsiasi cosa. L’aspetto endocorporeo del cibo ci dà questa illusione di controllo, la malattia che svigorisce i corpi, rendendoli sempre più sagomati, sempre più scheletrici annulla la percezione dei propri confini, così ben esplicata nell’autoritratto che vede il corpo sagomato da una linea rossa. Sophie in questo album fatto di carne consunta e scapole, di alberi soverchiati dalla neve e massi al centro dell’immagine ha creato un dialogo tra il dentro e il fuori, tra il corpo che manifesta la sua lenta resa e la mente che continua a elaborare la malattia attraverso un’immagine di se stessa che a volte si aggrappa, a volta si sente peso, a volte si ritrae allo specchio, come per annunciare ancora la propria esistenza. Anche se spesso quello che resta è un corpo nudo e bianco su un letto candido che regge la pressione di un petalo.
C.E.A. PORTRAITS
L’album che segue è un lavoro di ritrattistica in centri educativi assistenziali, con malati psichiatrici. Osservando le fotografie scattate da Sophie, effettivamente, ci rendiamo conto che la maggior parte sono ritratti, primi piani di soggetti ricoverati in questi centri. Il primo piano e il ritratto ci restituiscono, grazie anche alla potenza monocromatica del bianco e nero, una solitudine e uno straniamento che è palese negli occhi di chi raramente incolla lo sguardo all’obiettivo. C’è una sorta di sparizione in un mondo solitario, fatto di significati e significanti che lo scatto coglie un attimo, ma lascia andare. Non si può trattenere un mondo, un universo completamente agli antipodi dal nostro, quel ‘nostro mondo dei sani’. Ecco perché tra le immagini affiorano segnali chiari che, da un pianeta fatto di altri codici, possono apparire familiari al nostro. La fotografia in cui due soggetti vengono ritratti all’ombra di un albero, le mani che si incontrano ci raccontano di quella tenerezza, di quell’amore e quella eroticità che noi sappiamo e possiamo riconoscere nel nostro piccolo mondo di savi. Il lavoro di Sophie è rispettoso, anche quando i soggetti sono così prossimi all’obiettivo, non c’è propriamente la distanza che scaturisce dall’ignoto, ma la smania di comprendere e capire un linguaggio per farne una nuova narrazione, una storia che ci racconti di qualcosa che sembra al limite, ormai troppo lontano da afferrare, ma che invece ha profonde similitudini con la nostra storia, fatta di solitudine, di ricerca dell’altro, di spavento e sgomento, di zone grigie non rintracciabili, ma non per questo aliene.
VIKTORIA
Nella danza lenta e trascinata dei ricordi, la memoria si frammenta, niente appare lineare e univoco, ogni immagine si ribella alla legge delle causalità e le impressioni, insieme alle voci, agli odori, ai giorni felici e quelli tristi appaiono come piccoli atomi scissi, incapaci di badare a se stessi fin quando la creatività del gesto e del ricordo non intessono per loro una nuova storia. In questa doppia vita della memoria c'è più forza che nella vita stessa, così come è andata, così come è accaduta. Riscriviamo e coloriamo i fatti attraverso strumenti intelligenti e più autentici della realtà, osserviamo il passato con l'ausilio dell'emotività, del sentimento, perché non conta ciò che è stato, ma gli effetti che questo ha prodotto. Quindi ogni ricordo è il totale che ricaviamo dal calcolo delle ferite e delle gioie, non esiste altro modo che questo per raccontare una storia, si deve necessariamente partire dalla distanza che sfuma le immagini e ci lascia da soli con l'eco delle cose scomparse.
Sophie-Anne Herin ci racconta proprio questo tipo di storia, lo si nota subito osservando questi scatti, lo stile che utilizza è una riscrittura della narrazione che ci presenta, si serve di una manomissione stilistica che non può che diventare poetica e dare forma così a un universo di sensazioni e significati al racconto di una vita, quella di Viktoria.
Viktoria nasce in Ucraina, perde il marito a soli vent'anni, nel suo paese non è concessa a una vedova una seconda possibilità, così decide di partire per l'Italia con l'aiuto di due connazionali. Arrivata a Napoli, Viktoria si ritrova in una situazione di sfruttamento, l'unica scelta è partire, di nuovo, questa volta si dirige a nord, arriva così a Modena dove incontra un uomo col quale vive una storia d'amore e mette al mondo la sua seconda figlia. Purtroppo l'idillio non dura molto, il nuovo compagno la massacra di botte costringendola a rifugiarsi in un centro anti violenza di Modena con i due figli sui quali il padre perde la podestà. È qui che Sophie la incontra e da questo luogo che è a tutti gli effetti un'eterotopia umana e spaziale affrontano insieme il viaggio verso il paese natio di Viktoria, luogo al quale farà ritorno ogni estate per permettere ai figli di conoscere le proprie origini.
Le fotografie che Sophie è riuscita a scattare durante questo viaggio esprimono una drammaticità che si riconcilia con se stessa, il dolore dal passo pesante e trascinato allontana il ricordo della violenza e si concede quello spazio semplice e silenzioso che ha il volto della dimensione familiare. Eppure la tragedia personale e collettiva non è così distante, sembra resisti dietro ogni oggetto, momento o volto immortalato, come una presenza che ha abbandonato il suo aspetto chiassoso e si presenta nella forma elegante dell'immobilità e dei gesti, un gene, una condanna che cammina dentro le vene e si mischia al sangue, anche se il volto appare disteso. L'Ucraina è un paese sconvolto dalla guerra, Viktoria è una donna sconvolta dai suoi personali drammi, cosa ha che fare tutto questo dolore con la famiglia? C'è una linea sottile che unisce micro e macro mondi, un sottile filo di Arianna che funge da ovidotto al cui interno passa il valore della memoria, irrinunciabile per chi voglia dare un senso agli avvenimenti. Ogni fotografia ha un colore comune, una specie di filtro rosso che crea una continuità sanguigna, ma non solo. Questa patina ci consegna un'interpretazione, un sotto testo implicito, non osserviamo la cronaca della vita di una donna, della sua famiglia o del suo paese, ma il denominatore comune che li stringe in un legame parentale, perché è quello che sentiamo che ci rende simili, quel vasto universo che vive sul fondo di ogni storia. Alla fine del labirinto il Minotauro forse non esiste, o forse siamo noi, così come ci raccontiamo, così come ci ricordiamo, nella nostra debolezza e nella nostra forza. Non c'è un mostro capace di divorarci se non abbiamo lasciato che il labirinto ci divorasse per primo.
BIANCO
Sulle vette del mondo c'è uno strano e sussurrato dialogo tra gli elementi, niente pare si muova eppure i suoni sembrano boati, echi di viscerali spostamenti, scosse profonde provenienti dal midollo roccioso della terra. In superficie vige la legge spietata del più forte, la vita debole delle creature fragili è assente, il paesaggio è uno scenario quasi lunare, arredato da forme immobili e lapidarie di esistenze fredde. Aspra e ruvida l'epidermide delle alture mantiene nel silenzio il segreto di una madre terra priva di utero, infeconda e sferzata da venti e correnti spaziali. La scelta di Sophie-Anne Herin nell'adozione di una modalità di scatto che mette a fuoco ambienti sotto esposti, ci restituisce una pellicola dove il rosso domina ed evidenzia la natura carnale, sensoriale dei luoghi. Un'anima non uterina, ma vaginale e fisica esplode indifferente nelle sue foto, uno spirito indurito, un corpo solo materiale con impietosi accenni di rigoglio, lontani dalla grazia e dalla cagionevolezza. Il risultato cromatico esprime solitudine, sospensione, ma non debolezza, anzi esalta la luce arcigna delle curve e delle pietre, l'inanimata vita che la montagna partorisce. Un mistero ctonio rivendica il suo spazio rarefatto, allestisce un museo totemico, dove ogni prodotto pare eterno poiché simbolico. Eppure gli scatti di Sophie-Anne Herin aprono le porte a nuove dimensioni che coinvolgono l'umano sentire, il dialogo presunto tra l'uomo e questi surreali paesaggi ostili, a un passo dalla liberazione del cielo. Su un pianeta dove tutto è un continuo circolo senza fine, le vette delle montagne sono i rari confini terrestri dall'imperscrutabile valore semiotico, il significante ambientale dove l'uomo con il suo corpo organico e ricettivo avverte l'alterazione dei sensi, fino all'esigenza estetica di connotare i segnali che lo hanno sconvolto. Cosa accade se la natura primigenia in cui si è immersi si dimostra inospitale? Nella meditazione scopriamo la nostra origine, ma l'assenza di piante e rassicuranti, seppur delicate, presenze vitali ci fa esposti e divorati. Alla fine di ogni cosa, nella più spietata libertà, nel turbinio di venti infiniti, l'aria ha il profumo del vuoto e l'uomo rincorre pensieri che da semplici diventano complessi, perché l'altezza può essere la fine del mondo e l'inizio dell'eternità atemporale, ma può rappresentare anche una vastità claustrofobica in cui ognuno rivaluta la bellezza e la verità del conforto quando è piccolo e momentaneo, preda del ciclo mortale. La mancanza di appoggi è un'illusione di libertà per qualcuno, ma per altri è una vertiginosa caduta, il risveglio brusco e solitario di chi sognava la prigione discreta e chiusa di un abbraccio.
@ Denise Cuomo Pangallo
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